Qualità e Sacralità della Vita

Qualità e Sacralità della Vita


Intorno al concetto di qualità della vita c'è spesso un alone di incertezza e ambiguità, per dissipare il quale occorre risalire all'origine della parola, chiarirne la nozione ed il contesto culturale in cui si esprime.
Questa espressione verbale, già presente nella letteratura socio-politica fin dagli anni '50, acquisì carattere programmatico nel 1964, quando l'allora Presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson affermò che gli obiettivi che egli perseguiva non potevano essere valutati in termini bancari ma in termini di qualità di vita.
Da allora questa espressione compare sempre più frquentemente in scritti, discorsi, studi e programmi a carattere socio-politico ed in quest'ambito indica che non basta garantire alla società i livelli minimi di disponibilità di beni fondamentali (cibo, casa, lavoro) in senso quantitativo. Né tantomeno ciò può determinare la felicità di una popolazione, perché essa dipende anche dal rapporto bisogni-desideri.
Una società che progredisce e persegue l'ideale dello sviluppo una volta soddisfatti i bisogni di base, insegue il soddisfacimento dei desideri e delle aspirazioni. Ma qui cominciano a sorgere dei problemi: mentre i bisogni hanno la possibilità di saturazione, i desideri non sono altrettanto limitabili, anzi le nostre società hanno dovuto registrare il fatto che anche quando cresce il livello di disponibilità di beni, al punto da rendere possibile il soddisfacimento dei desideri e non più soltanto dei bisogni, aumenta tuttavia il cosiddetto "coefficiente di insoddisfazione" perché i desideri soddisfatti generano altri desideri.
Le nostre società, inoltre, caratterizzate dallo stimolo al consumo, rivelano un'attitudine diversa rispetto alle società antiche. Mentre nelle società antiche coloro che diventavano ricchi si dedicavano a preoccupazioni non economiche (lettere, arti, equitazione, avventure militari) le società attuali anche quando sono ricche rimangono legate ai dinamismi degli aspetti economici.
Non potendo dunque soddisfare il desiderio sul piano del benessere economico ila "qualità della vita" assurne altre connotazioni: una connotazione di carattere personalstico e valoriale (distinzione tra bisogno dell'avere, bisogno dell'amare e bisogno dell'essere, dove la qualità di vita è in relazione al soddisfacimento di relazioni interpersonali più intense), la quale ha valore soprattutto nell'ambito della medicina sociale, in particolare in gerontologia.
Un altro filone di pensiero che si accompagna a questa prospettiva di tipo socio-politico e culturale è il pensiero ecologista, secondo cui per raggiungere un livello adeguato di qualità di vita occorre affrontare come una terapia di urgenza la protezione dell'ambiente. L'equilibrio delle forme di vita nel mondo, la loro reciproca relazione a difesa della salubrità dell'ambiente vitale sono fattori ritenuti indispensabili per la qualità di vita.
L'uomo in questo sistema di interdipendenza di queste forrne di vita è il fruitore principale, il custode delle risorse e, ad un tempo, il maggior responsabile del loro degrado.
Ma esiste anche il significato medico di qualità della vita.
La medicina in questi ultimi trenta anni ha riportato vittorie sulle malattie infettive, ha prodotto l'allungamento della vita media attraverso l'applicazione del metodo sperimentale, ha avviato, dopo la rivoluzione terapeutica, una seconda rivoluzione, quella biologica, nell'ambito della nuova genetica, ponendo le premesse e alimentando l'aspirazione di riuscire a superare il grande scoglio costituito dalle malattie ereditarie e dal cancro.
Gli ambiti medico-specialistici dove maggiormente è stato approfondito il discorso della "qualità di vita" sono soprattutto quelli relativi al problema delle decisioni terapeutiche sui malati terminali, decisioni che dovrebbero essere prese non soltanto in relazione al prolungamento quantitativo della vita, ma anche in relazione alla qualità di vita. L'applicazione del concetto di qualità di vita si estende ovviamente anche all'ambito della vita prenatale e neonatale, dell'assistenza all'anziano, delle cure palliative, dell'igiene e sanità pubblica.
Per altro la definizione stessa di salute nella concezione della OMS è pressoché sovrapponibile al concetto di qualità di vita, dal momento che per salute si vuol intendere non soltanto la cura delle malattie ma la ricerca del "pieno benessere fisico, psicologico e sociale".
Ma proprio qui dove sembra tutto ricco di future felicità sorgono gravissimi dubbi ed anche aberranti ambiguità.
Il primo problema, o dubbio che dir si voglia, consiste nella difficoltà di definire quali sono gli elementi oggettivi e quali i fattori soggettivi nella qualità di vita: non è sufficiente, infatti, che una persona ad es. stia bene quanto alla salute fisica ed abbia un ambiente socialmente favorevole, ma che egli stesso senta di stare in buona salute e accetti la relazione psicologica in senso positivo.
Si sa quanto contribuisca alla qualità di vita il diverso grado di cultura, l'arte o la religione in persone che godono dello stesso standard di salulte fisica o di benessere eonomico-sociale. Due malati di tumore sottoposti alle stesse cure reagiscono soggettivamente in maniera diversa. Quanto pesa la sofferenza psichica o morale, la depressione o la relazione negativa con il coniuge per la valutazione della qualità di vita?
Di qui sorge la difficoltà - altro problema - di sapere a chi compete stabilire i parametri di qualità di vita, la loro gerarchia e il rilievo da dare a ciascuno. Finché si tratta di parametri oggettivi e fisici certamente è il medico o lo specialista che può valutare, ma quando si tratta di fattori psicologici come "percezione di sé", la percezione di benessere, l'aspettaiva di speranza rispetto alle cure e al loro livello, le attese nei confronti dei servizi soltanto il soggetto può valutare. Ci sono coordinate che dipendono dall'età, dalle abitudini, dalla gravità della malattia.
Un altro problema è quello della elaborazione delle scale di valutazione della qualità di vita o della loro validità.
C'è chi sostiene, dimostrandola a guisa di rappresentazione matematica, la possibilità di una misurazione della "qualità di vita", mediante indici quantitativi. Ad sempio per misurare la quaità di vita degli anziani sono stati predisposti strumenti e scale che riguardano le quattro componenti della qualità di vita:
a) lo stato fisico e la capacità funzionale;
b) lo stato psicologico e il senso di benessere;
c) le interazioni sociali e i fattori economici;
d) i fattori etici o valoriali secondo il sistema di valutzione generica globale (Comprensive Geriatric Assessment).
Altri strumenti di valutazione sono stati predisposti per valutare la qualità di vita nei malati a seconda della gravità della malattia con l'indice di Karvnoski o per i malati terminali con la formula di T. Engelhardt e infine per la decisione di assegnazione delle risorse in ordine a certe terapie è stata approntata la formula detta del Qualy (Quality Adjusted Life Years) che si basa sull'analisi dei costi-benefici. per paragonare le risorse consumate o inputs (in termini di costi diretti, indiretti ed intangibili) e risultati indiretti o outputs (numero dei pazienti, qualità e quantità di vita di ognuno e possibile recupero delle produttività) allo scopo quindi di decidere circa la allocazione delle risorse.
Queste ultime formule (come quella di Engelhardt e quella del Qualy sono chiaramente utilitaristiche perché pongono comr elemento valutativo importante il recupero della produttività del malato e i costi economici.
Il risultato di questa assolutizzazione non sarebbe più il principio della sacralità della vita a fondamento della norma etica ma il principio della qualità di vita; così che se una vita umana si trova fase prenatale o neonatale, o terminale in una condizione tale che non ha più un determinato quoziente richiesto e prefissato di qualità di vita non esisterebbe piu l'obbligo di difenderla o conservarla. La mancanza di autonomia e di coscienza come la presenza del dolore sono fattori considerati come decisivi in questo senso.
Questo criterio ideologico è diventato giustificativo dell'abuso selettivo, dell'uso distorto della diagnosi prenatale, della diffusione degli screening genetici selettivi, dell'eutanasia neonatale e terminale, con il ricorso al criterio di Qualy o di formule di tipo matematico.
Il principio utilitaristico viene rafforzato con quello di autonomia inteso in senso assoluto, per cui il paziente e soltanto lui potrebbe giudicare e decidere sul proseguimento o la cessazione delle cure e circa l'eutanasia o anche il suicidio.
In queste teorie è totalmente assente il senso della trascendenza della vita umana e quindi la percezione della sua intangibilità, fattore che fonda l'obbligo del rispetto della vita e la sua sacralità. In questa concezione immanentistica e utilitarista manca inoltre in senso assoluto la capacità di dare senso alla sofferenza.
Ho trovato molto interessanti le annotazioni che A. Oliverio fa sulla connessione che si è stabilita in senso depressivo tra la perdita del primato dell'essere e della contemplazione da una parte e l'emarginazione degli anziani dall'altra. In uno studio, l'autore passa in rassegna la storia del pensiero filosofico, delle arti figurative e del costume allo scopo di sottolineare il cambiamento dell'immagine dell'anziano nelle diverse tappe della civiltà occidentale: "la personalità dell'uomo maturo" - scrive Oliverio, riprendendo il pensiero di Erikson - "trova la sua espressione equilibrata sia nell'azione che nella contemplazione: si può dunque domandare come una società che premia essenzialmente l'attività possa portare ad una crescita equilibrata e ad una realizzazione dell'individuo. Una concezione della vita basata sull'attività e sulla ideologia del lavoro nelle civiltà industriali impone ai giovani una lunga fase di apprendistato e richiede all'adulto il massimo delle sue energie in un arco lavorativo che tende ad essere sempre più breve, una situazione questa che è alla base dell'emarginazione dell'individuo anziano il cui ruolo si è profondamente modificato col passaggio da forme di società in cui la vita attiva si alternava a quella contemplativa (società agricole), a quelle basate essenzialmente sui valori del lavoro e dell'affermazione dell'individuo in quanto produttore e consumatore".
L'offuscamento dell'essere e della trascendenza ha tolto il respiro alla contemplazione intesa come capacità dello spirito di incontrare l'essere, non soltanto nell'anziano, ma anche nei giovani. Perdere il senso dell'essere, della sua grandiosità silente e misteriosa, della sua palpitante vitalità, vuole dire perdere senso e la bellezza della verità, che vale per sé stessa, che vale per tutti, perdere il senso della obiettività e trascendenza della norma etica, vuol dire sentirsi macchina che produce e consuma, oppure oggetto che viene consumato.
Anche la creatività dei valori estetici, la scoperta dei valori etici, il gusto del dono e dell'amore gratuito (l'essere è dono) sono annebbiati e sepolti dall'ansia della produttività: "creare" esige trascendere, trascendersi, contemplare. Anche il fare diventa un making non un acting, se manca la contemplazione e se viene meno la trascendenza.

Problematiche etiche nell'anzianità
Alla luce di quanto messo in rilievo nella premessa vanno analizzate le problematiche etiche relative alla terza età. Esse riguardano:
a) l'invecchiamento della popolazione;
b) i problemi etici dell'assistenza all'anziano;
c) i problemi etici del trattamento degli anziani malati gravi o in fase terminale della malattia;
d) i problemi della promozione dell'anziano (geragogia);

a) L'invecchiamento della popolazione.
La nostra è un società che provoca l'invecchiamento della popolazione: questa affermazione potrebbe risultare non chiara se non si precisasse prima che parlare di invecchiamento della popolazione non equivale a parlare dell'invecchiamento del singolo individuo.
Infatti, non è un fatto nuovo che l'uomo, come ogni essere vivente, invecchi e che l'invecchiamento vada incor tro con il progredire dell'età a maggiori problemi di salute e di autogestione. Nessun intervento medico o chirurgico può, per il momento, consentire a chi oltrepassa una certa età di evitare il fenomeno dell'invecchiamento e le strategie miglioristiche, di cui tanto si sente parlare, possono solo ritardare il deterioramento e conservare la qualità e la durata della vita ma non certamente annullare un fenomeno che è indipendente dalla volontà del singolo.
Al contrario l'invecchiamento delle popolazioni, cioè la crescita della percentuale di anziani in rapporto all'universo della popolazione, è un fenomeno che dipende in larga misura da scelte etico-culturali.
Ora, sappiamo che non si può considerare eccezionale l'invecchiamento delle popolazioni nelle società ad alto sviluppo industriale, perchè le popolazioni non possono crescere indefinitamente in modo uniforme; ciò che crea problema è la velocità, l'estensione e la vastità del fenomeno dell'invecchiamento delle popolazioni, con conseguenze di una tale portata che chiamano in causa la responsabilità di tutti e di ciascuno.
L'aumento del numero degli anziani, legato ai progressi sociali e in campo medico, non è la sola causa dell'invecchiamento della popolazione: è, soprattutto, il diminuito tasso di natalità che crea questo squilibrio nel rapporto anziani/giovani. Questo fenomeno, dipendente dalle note scelte in materia di procreazione e pianificazione familiare, è tipico dei Paesi sviluppati ma non dei Paesi in via di sviluppo che tendono ad espandere la propria presenza e a rimpiazzare le forze produttive e lavorative attraverso l'immigrazione in Occidente.
È iniziata, così, la fase di ritorno dell'emigrazione che l'Occidente ha compiuto nei secoli scorsi e specialmente in questo secolo, a partire dalla scoperta dell'America fino all'immediato dopoguerra. E questa ondata di ritorno provocherà tanti problemi di ordine etico e culturale, di compatibilità interetnica, non inferiori a quelli provocati o sofferti dagli emigranti europei in cerca di lavoro o alla conquista di nuove terre.
Per una sorta di meccanismo di difesa di dubbia moralità, anzi di sicura immoralità, il mondo occidentale - e per esso potenti organismi economico-finanziari - tenta di bloccare la crescita dei paesi in via di sviluppo, seminando la cultura della pianificazione familiare con sottili meccanismi di compressione e di neocolonialismo biologico. Ma si sa che questa strrada oltre ad essere immorale, se non fosse altro per i metodi che usa, privi di rispetto della responsabilità procreativa delle coppie, è anche inefficace e funziona semplicemente come boomerang: la limitazione incide per lo più sui popoli occidentali che dovrebbero, invece, incrementare il tasso delle nascite almeno per pareggiare quello delle morti.
Da quanto detto si deduce che il problema dell'invecchiamento delle popolazioni chiama in causa responsabilità di ordine etico, sociale e politico: si può e si deve correggere l'antinatalismo sistematico e compressivo.
L'invecchiamento della popolazione si ripercuote, tra l'altro, sulla stessa gestione sociosanitaria degli anziani. L'assistenza degli anziani, dal momento che questi eccedono le forze giovanili e lavorative, non è più sicura né garantita: le pensioni saranno sempre più basse, i medicinali sempre più costosi, gli anziani più numerosi e più soli.
Se cerchiamo la causa di tutto questo la possiamo ravvisare nello stravolgimeno del "senso della vita". Infatti, se la vita è sentita come dono, e dono il cui valore trascende l'immanenza dell'economia, della politica e della storia, la vita sarà amata e donata; ma se la vita è sentita e vissuta nel suo atomismo terreno e nell'atomistico non senso, allora si cercherà di limitarne il dolore, la durata e il numero dei "beneficiari'' non convinti del beneficio.
Se si conserva l'orizzonte trascendente e creazionistico la vita è sentita come dono anche quando è lotta e l'amore verso la vita fruttifica verso la solidarietà sociale; se questo orizzonte si perde il nihilismo e l'individualismo prendono il campo e la limitazione delle nascite, l'aborto selettivo dei soggetti difettosi, la limitazione delle spese per l'assistenza, e, infine, l'eutanasia costituiscono un ineluttabile corteo crepuscolare e funereo.
Per quanto possa sembrare paradossale il problema dell'anziano si risolve in buona misura con il bambino, cioè con un riequilibrio delle nascite, meta che andrebbe perseguita con interventi di tipo politico (politica della casa, politica della famiglia) ma anche etico-culturale (educazione al rispetto della vita già nata e che nascerà) nella consapevolezza condivisa che un Paese senza bambini non può avere speranza nel futuro.

b) I problemi etici dell'assistenza dell'anziano.
Tralascio di soffermarmi sulla discussione , ancora avveniristica ed anche di dubbia eticità che si riferisce alle strategie immortaliste basate sulla ingegneria genetica per combattere l'invecchiamento. Ci muoviamo nell'ottica delle strategie "miglioriste" che consistono nel prevenire le malattie, nel curare l'anziano e nella riabilitazione, unendo insieme medicina generale e geriatria.
Chi segue il dibattito etico sull'assistenza all'anziano non può non aver notato come vi sia la tendenza a considerare il fattore "età" come un "indicatore" terapeutico ovvero come criterio scriminante per decidere se assistere o meno il paziente anziano. Ora, se il fattore "età" può essere d'aiuto per valutare le aspettative e l'esito di una terapia relativamente alle condizioni del paziente anziano, ovvero in un calcolo rischi/benefici (ad es.: valutare l'opportunità o meno di eseguire un intervento chirurgico tenendo presente la situazione cardio-circolatoria del paziente), esso non può essere, però, utilizzato in un calcolo costi/benefici. In questo ultimo caso si tenderebbe, infatti, ad intervenire solo a favore di chi - una volta ristabilitosi - fosse produttivo e utile per la società.
A partire da questi richiami vediamo come dovrebbero essere sentiti e affrontati alcuni impegni sanitari.
La sanità, intesa come organizzazione sanitaria e come impegno delle risorse disponibili, dovrà mantenersi orientata al criterio della socialità e della sussidiarietà secondo il quale gli anziani devono essere curati in base alle proprie necessità senza che vengano privati delle cure a motivo di deprezzamento nei loro confronti e di subdolo avallo dell'eutanasia sociale.
Ne consegue che il primo impegno dovrà essere rivolto all'educazione sanitaria e alla prevenzione delle malattie professionali e da ambiente di lavoro, dell'uso di alcool e di farmaci: questa educazione sanitaria va iniziata fin dalla giovinezza; poiché i giovani di oggi saranno gli anziani del domani. Ed a questo proposito così si legge nella Raccomandazione n. 3 del "Report of The World Assembly on Age" del 1982: "Una diagnosi precoce ed un trattamento adeguato, oltre a misure preventive, sono indispensabili per ridurre la frequenza della inabilità e delle malattie degli anziani".
In secondo luogo dovranno essere curate in modo adeguato le malattie dell'anziano: la geriatria e la gerontologia si sono costituiti oramai, come disciplina unica pur rimanendo nel contempo autonome, perché anche se le malattie hanno nell'anziano componenti tipiche è altrettanto vero che alcune malattie sono peculiari dell'età anziana. Da un punto di vista etico oltre che clinico si impongono, tra l'altro, problemi particolari in questo ambito quali l'abuso di farmaci che richiedono stategie di farmacovigilanza e ricorso a ricoveri impropri dovuti soprattutto al disimpegno della famiglia e alla presenza sempre più numerosa nella società di anziani soli.
Recentemente il Centro di Promozione e Sviluppo dell'Assistenza Geriatrica (CEPSAG) della Università Cattolica ha esaminato in dettaglio alcuni problemi etica dell'assistenza clinica all'anziano malato, come il problema della contenzione, dell rianimazione cardiopolmonare, del supporto nutrizionale, esaminando anche gli atteggiamenti dell'équipe curante.
Il comportamento dei sanitari nei confronti dell'anziano malato dovranno essere informati agli stessi criteri che si utilizzano in tutta la pratica medica: scelta delle terapie più adeguate (valutazione del rapporto rischi/benefici) e proporzionate al caso in esame; richiesta del consenso informato; umanizzazione dell'assistenza.
Infine, si dovrà favorire l'intervento riabilitativo ancora scarsamente utilizzato per gli anziani, intervento che gli consentirebbe una vita il più possibile autosufficiente e anche il reinserimento sociale.
Si può quindi dire che nel modo stesso di organizzare l'assistenza sanitaria si legge il riflesso dei valori vissuti dalla società e del senso della considerazione per il valore della vita che una determinata società ha ed offre ai suoi cittadini: l'etica in campo dell'assistenza sanitaria diventa criterio di valutazione della più ampia etica sociale.
Nell'accennare al problema dell'assistenza all'anziano non bisogna dimenticare il ruolo della famiglia soprattutto per quanto concerne l'assistenza domiciliare. Ma la famiglia oggi si pone in termini nuovi e spesso problematici, proprio sul terreno dei valori e dei rapporti umani: l'anziano che vive solo o costituisce una coppia anziana, dopo l'affermarsi della famiglia nucleare e soprattutto con la prevalenza, specialmente nelle zone urbanizzate, dell'individualismo, risente di un grande isolamento esistenziale e di una sindrome della vita priva di senso.
L'individualismo e il conseguente allentamento dei vincoli di solidarietà fanno sì che spesso sia lo stesso anziano a isolarsi per non essere investito dai problemi delle famiglie giovani e della compagnia stabile dei nipoti.
È vero che il modello di famiglia "allargata" nei rapporti a distanza sta riprendendo credito nella società e spesso le famiglie giovani ricomprendono la funzione dell'anziano come agente di educazione e fattore di continuità generazionale, ma questa sensibilità è ancora incipiente. Per ora l'anziano è cercato il più delle volte come custode dei nipotini, quando i genitori sono impegnati e in relazione alla sua capacità di autonomia ed efficienza.

c) Il trattamento degli anziani malati gravi o in fase terminale della malattia.
Ma il problema sanitario più scottante è quello dell'assistenza degli anziani non autosufficienti a causa di marttie organiche e neuropsicologiche gravemente debilitanti. Tutti sanno come l'assistenza ed il ricovero di questi soggetti sono diventati impossibili negli ospedali pubblici, mentre le case di ricovero private sono o inaccessibili economicamente ai meno abbienti o prive dei posti e delle attrezzature assistenziali (sia materiali che umane) desiderate. È in questo ambito che spesso si scoprono o si propagano tentazioni eutanasiche.
Occorre, allora, creare assolutamente strutture adeguate per gli anziani non autosufficienti e lungodegenti, potenziando nel contempo al massimo l'assistenza all'interno della famiglia, che è e rimane l'elemento chiave di ogni equilibrato sistema di cure. Si tratta, allora, di mettere in atto una strategia integrata: famiglia, ospedale geriatrico, strutture per lungodegenti e non autosufficienti, a seconda delle condizioni individuali.
Così si legge a questo proposito nel già citato "Report of the World Assembly on Age" alla raccomandazione 13: "Occorre ampliare l'assistenza a domicilio per assicurare servizi sociosanitari di buon livello ed in quantità sufficiente perché le persone anziane possano abitare nella loro comuità di origine e vivere autonomamente il più a lungo possibile. L'assistenza a domicilio non può essere considerata come un sostituto delle cure ospedaliere; questi due tipi di cura sono invece complementari e converrà associarli nel sistema sanitario perché le persone anziane possano ricevere, con una spesa minima, le cure più adatte alle loro esigenze. Occorre dotare i servizi a domicilio di mezzi medici, paramedici, infermieristici e tecnici che consentano di limitare il ricorso alla ospedalizzazione".
Un ultimo punto è quello che si riferisce all'assistenza sanitaria e umana nel momento della malattia terminale e della morte. Rimandando ad altri testi per un'analisi accurata del problema, indichiamo in modo schematico alcuni criteri che vanno sempre tenuti presenti nell'approccio al malato in fase terminale:

1. il rifiuto di qualsiasi forma di eutanasia sia omissiva che commissiva.
In nome della dignità di ogni individuo umano, che richiede innanzitutto il rispetto della vita fisica e corporea quale valore fondamentale della persona, l'etica personalista e, quindi anche cattolica, per la quale la vita è dono di Dio, hanno condannato e condannano sempre il ricorso all'eutanasia, alla soppressione di un essere umano, sia che questo gesto venga richiesto per se stessi o per gli altri. Ovviamente per eutanasia si intende una azione o un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore;

2. il rifiuto di qualsiasi tentativo di accanimento terapeutico.
L'accanimento terapeutico si configura qualora si ricorra ad un trattamento di constatata inefficacia, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato o di sofferenza ulteriore per il paziente e si intraprenda un trattamento chiaramente sproporzionato nel rapporto rischio/beneficio.
Volendo fare una esemplificazione, facciamo riferimento al caso in cui bisogna prendere delle decisioni per un paziente in coma, ricoverato in rianimazione. Riteniamo che, in questo caso, non si configuri alcun accanimento terapeutico qualora:
a) in presenza di coma ritenuto reversibile, si usino tutti i mezzi a disposizione per il recupero del paziente in quanto una vita umana vale ogni sacrificio;
b. in presenza di coma irreversibile, non si intraprendano interventi particolarmente sfibranti e onerosi per il paziente condannandolo al prolungamento di un'inutile agonia, fermo restando, però, l'obbligo del cure ordinarie;
c. non si prolunghi una vita puramente apparente e totalmente artificiale dopo che l'attività cerebrale e le funzioni del troncoencefalo siano completamente e irreversibilmente cessate, a meno che non sia possibile e utile il prelievo di organi.
Quindi il concetto di accanimento terapeutico che talvolta sembra intenzionalmente drammatizzato per attirare consensi sull'eutanasia, si configura nella fattispecie in questi due casi:

1) se si interviene su chi è stato dichiarato clinicamente morto;
2) se l'intervento medico o chirurgico (ad eccezione dell'assistenza ordinaria) venga fatto nel quadro di un decorso irreversibile e nel caso di comprovata inefficacia o nel caso di evidente sproporzione tra rischi e sofferenze umane da una parte e risultati dall'altra. Questa sproporzione, nel caso del coma, non è sempre facilmente evidente, perché quando si inizia un trattamento rianimatorio non si può mai sapere il più delle volte se il coma è irreversibile. Poiché è difficoltoso definire, anche dopo settimane, la irreversibilità del coma e quindi la irrecuperabilità delle funzioni di coscienza e di relazione, non ci sembra eticamente giustificabile in questo caso sospendere l'assistenza ordinaria anche rianimatoria;

3. la valutazione della proporzionalità degli interventi in relazione allo stato del paziente.
Ogni intervento terapeutico sul malato deve essere giustificato dalla possibilità di trarne un beneficio proporzionato al rischio e al costo umano imposto al paziente, in assenza di altre e valide alternative;

4. la richiesta del consenso informato per gli interventi ad elevato rischio.
Il medico non può imporre al paziente trattamenti che potrebbero essergli di vantaggio in una certa percentuale di casi, ma che potrebbero anche presentare un rischo elevato di esito negativo: al paziente o a chi lo rappresenta legalmente deve essere lasciata la libertà di scegliere se accedere o meno ad un programma terapeutico che presenta le suddette caratteristiche;

5. la continuazione dell'assistenza ordinaria - tra cui sono comprese l'idratazione, l'alimentazione, l'igiene corporale, la medicazione, la detersione delle ulcere -, assistenza che deve essere considerata un diritto del paziente non soltanto per rispetto della sua vita ma anche per non aumentare la sofferenza della morte; inoltre la sottrazione delle cure ordinarie non deve essere assunta come una via surrettizia per anticipare la morte.Quanto detto è valido anche nel caso in cui il paziente si trovi in stato vegetativo persistente (SVP), situazione in cui l'alimentazione e l'idratazione sono tecnicamente assistite. La situazione dello stato vegetativo persistente merita una riflessione particolare in ordine a due istanze etiche:
a) questi soggetti non possono essere dichiarati "non più persone" per il fatto che non possono più recupeare la vita di relazione né addirittura morti per il fatto che c'è la sola morte corticale. È, infatti, da tener presene che l'atto esistenziale e personale che sostiene nell'uomo la vita vegetativa, sensitiva e relazionale è unico e pertanto anche in presenza di uno stato di coma prolungato non si può provocare la morte dato che quella vita umana è anche vita della persona quantunque si preveda che non sarà piu capace di relazione.
b) Pertanto questi soggetti dovranno ricevere normalmente l'assistenza ordinaria come l'alimentazione-idratazione anche artificiali.
L'alimentazione e la idraazione assistite sono attualmente molto discusse soprattutto nella letteratura anglosassone: alcuni vorrebbero, infatti, classificarle come interventi straordinari e perciò non obbligatori sempre, altri addirittura come accaninento sul paziente specialnente se questi è un paziene in SVP. Due documenti recnti dei Vescovi Americani si pronunciano a favore dell'obbligo di somministrare l'alimentazione e l'idratazione anche assistite ai soggetti in SPV, ritenendo non classificabili questi sostegni alla vita né come "interventi straordinari" né come "accanimento terapeutico". Tuttavia ammettono che qualora diventino fonte di eccessivo aggravio e non più di sostegno specie nella fase terminale possono essere sospesi;

6. la possibilità di somministrare analgesici, qualora il paziente li richieda, dopo averlo avvertito dei possibili effetti di obnubilazione della coscienza e calibrando le dosi in modo che non siano essi stessi causa della morte. Nel caso in cui la loro somministrazione dovesse comportare la perdita della coscienza - il che è poco frequente con le moderne terapie per il dolore - si deve chiedere il consenso al paziente e si deve prevedere possibilità di adempiere sue volontà finali; in ogni caso le dosi impiegate devono essere proporzionate all' intensità del dolore;

7. Nell'ambito di questo quadro assistenziale va anche considerato l'obbligo della adeguata informazione e della comunicazione al paziente sulla gravità della malattia: tali informazioni dovranno essere commisurate alle condizioni psicologiche e spirituali dello stesso;

8. il paziente ha diritto, inoltre, ad una adeguata assistenza umana, psicologica e spirituale, perché sia alleviato il senso di solitudine, ed è doveroso intervenire nell'elaborazione del lutto nei confronti dei parenti sia per solidarietà che per fare una vera umanizzazione della morte. A questo proposito si legge nel "Report of the World Assembly on Age" alla Raccomandazione n. 5: "L'assistenza ai morenti, il dialogo con loro, il sostegno morale dato ai parenti al momento del lutto e dopo, presuppongono uno sforzo specifico che esula dalla medicina, ma che dovrebbe ispirarla";

9. L'organizzazione di modelli alternativi di assistenza.
Le esigenze più recenti, convalidate da oramai note esperienze, sottolineano l'importanza di modelli alternativi all'ospedalizzazione del morente quali appunto gli hospices, l'ospedalizzazione a domicilio e l'assistenza domiciliare con differenti gradazioni di intervento specialistico ma con un intento unico che è quello di riportare l'evento morte all'interno della famiglia, assistita e sostenuta con i più adeguati sussidi terapeutici.

d) La promozione dell'anziano: la geragogia.
Parlare di promozione dell'anziano vuol dire individuare i percorsi che consentano di stimolarne l'attivtà e la creatività: a fronte di questa possibilità ci si domanda, allora, come possa sentirsi attivo e creativo un anziano, ad esempio, malato o magari colpito da infermità cronica.
A questo proposito si rende necessario fare una considerazione di carattere generale sul concetto stesso di salute, considerazione che dobbiamo tenere presente per tutto l'arco della vita umana, ma che ha particolare peso nel caso in esame, proprio perché è la salute che viene meno più frequentemente nell'anziano e possono essere le condizioni sanitarie a rendere difficile o problematica la applicazione del concetto della cosiddetta "active aging".
Della salute si possono dare diverse definizioni: una è quella popolare che identifica la salute come "vitalità fisica esuberante, in assenza di ogni disfunzione"; chiaramente questa definizione ben raramente si potrebbe applicare nell'anziano, ma forse sarebbe difficile riscontrarla anche nei giovani. Altra definizione compare spesso nel significato mutualistico e in ambito lavorativo ed è intesa come "stato di efficienza nei confronti dei compiti lavorativi propri dell'individuo nella società": questa definizione è negata all'anziano in termini giuridici, perché l'anziano è un soggetto "collocato a riposo", anche se in senso assoluto alcuni soggetti potrebbero rispondere ancora bene ai compiti lavorativi. Un'altra definizione di salute, utilizzata in campo medico, la conisdera come "assenza di ogni compromissione, sia organica che funzionale nell'organismo umano": anche questa definizione risulta ben problematica per l'anziano.
La definizione più accreditata è quella della Organizzazione Mondiale della Sanità che suona in questi termini: "La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo assenza di malattia o di infermità". Questa concezione risulta eccessiva e utopica per tutti e tanto più per gli anziani, perché il pieno benessere non esiste quasi mai.
Le critiche provenienti da varie parti e soprattutto dal mondo cattolico a questa definizione si concretizzano in alcune osservazioni importanti. Anzitutto tale definizione come si è detto rimane utopica e crea delle aspettative o diritti, più consoni all'edonismo che alla visione realistica della terza età; in secondo luogo tale definizione non prende in esame una "quarta dimensione", che è la dimensione etica: la salute è un bene della persona, di cui la persona ha la responsabilità e a cui la persona dà un significato.
Questo aspetto etico emerge dalla constatazione che molte malattie dipendono dalla nostra volontà (alcolismo, abuso di farmaci e di alimentazione, droga, etc.), ma soprattutto emerge dal fatto che, anche quando la malattia avesse un'origine indipendente dalla volontà umana, come spesso accade nell'anziano, la presa di coscienza del soggetto e le sue motivazioni interiori possono dare alla malattia e alla sofferenza un valore superiore e perciò creativo.
In un'ottica personalista la salute diviene, allora, un compito da realizzare, una méta da raggiungere, una libertà da conquistare giorno dopo giorno, ma soprattutto non viene considerata come un quid statico: è piuttosto un equilibrio dinamico sempre da ricomporre. In tal modo non si guarda solo agli aspetti quantitativi della salute ma anche alla capacità del singolo di vivere la propria situazione - pur limitata - in modo creativo sì da riempire gli ultimi anni di vita di scopi e di speranze.
Si tratta di un percorso reso possibile dalle stesse risorse di creatività presenti nell'anziano. Come mette in evidenza a questo proposito Rahner, nel soggetto anziano (e questo ha valore anche per ogni altra persona umana) vi è la compresenza di una triplice dimensione: biologica, culturale, spirituale.
Ora se è vero che da un punto di vista biologico "l'uomo invecchia e muore sempre allo stesso modo; il medico scopre ad esempio nelle nummie di tempi antichissimi le stesse malattie esistenti tutt'oggi", è altrettanto vero che non esiste la vecchiaia, ma il vecchio, non esiste l'anzianità, ma esistono gli anziani e le leggi biologiche hanno, comunque, una variante individuale, diversamente da quanto capita per le leggi fisiche.
Non si può certo sottacere come il dato biologico condizioni tutta la vita della persona (altra è la creatività che potrà esprimere a livello di capacità fisiche un anziano dirigente di azienda di 65 anni, altra ancora - ma esiste! - è quella che potrà suscitare un morente), ma è la dimensione spirituale che alimenta la capacità creativa sempre che in ognuno ci sia la presenza di uno spirito libero, una visione della vita, una ricchezza di valori tali da dare un senso e un significato agli eventi biologici ineludibili e alla storia personale.
Si deve anche valutare la condizione sociale dell'anziano: il grado di istruzione, l'isolamento o l'inserimento nella famiglia, il modo di vivere la malattia o la stessa morte variano a seconda delle società e dei costumi, e, nella stessa società, variano a seconda della Weltanschauung di ogni individuo.
Perché si realizzi questo cammino sono, però, necessarie alcune condizioni che possiamo così schematizzare.

1. La prima condizione, che non impegna solo gli anziani, ma tutte le forze vive della nostra cultura, è quella di favorire il risveglio della cultura dell'essere e, quindi, della cultura della vita, opposta alla cultura meccanicistica.
"Essere di più" vuol dire scoprire che alla sorgente del nostro essere c'è una fonte di energia inesauribile che può costruire una vita che sia sempre più piena, vuol dire comprendere che la civiltà tecnologica, la quale pone al primo posto l'avere e il fare, ci ha impedito di realizzare il meglio di noi stessi e che questa méta ulteriore è raggiungibile per tutti. Occorre, allora, creare degli spazi di contemplazione e di risveglio dell'"essere persona" in cerca di un arricchimento, di un "non ancora" che nasconde meraviglie di straordinaria bellezza.
Che l'anziano sia persuaso che "il meglio è ciò che deve ancora accadere": è questo il primo passo di conversione ad una qualità di vita intesa nel senso migliore della parola.
"Voi siete per questo mondo tecnico, che tende a non considerare l'uomo se non secondo il suo rendimento, una lezione salutare: vi è una dimensione della vita, che è fatta di valori umani, culturali, sociali e spirituali dei quali non si può calcolare il prezzo in moneta e che costituisce pertanto ciò che rende gli uomini essenzialmente uomini non macchine".
Non bisogna aver paura di porre gli anziani in una posizione critica nei confronti della società a prevalente dominanza e denominazione meccanicistica e utilitaristica, facendo comprendere quanta vita e quante vite essa tolga ogni giorno al palpito dell'esistenza e dell'amore. Si tratta di un risveglio che deve coinvolgere tutti e non solo gli anziani e deve portare a credere che questa società possa essere cambiata, debba essere cambiata e che spetta specialmente a chi ha più pagato per le insufficienze sociali reclamare il cambiamento. Non si tratta quindi di trovare dei trastulli agli anziani, come si fa con i bambini, quando se ne vogliono evitare i lamenti e si offre loro in bocca il biberon. Questa presa di coscienza per gli spazi critici, per gli spazi della contemplazione, per costruire un foyer di rinnovamento nella comunità, richiederà delle iniziative concrete che possono essere inventate dagli stessi interessati. È questo il compito della "geragogia".
Bisogna evitare, inoltre, di ghettizzare le iniziative degli anziani in questa direzione: ogni dibattito, ogni annuncio, ogni esperienza, che intendano invertire il corso delle cose e cercare una più ampia espressione di vita, richiedono interlocutori tra i giovani e gli adulti e richiedono collaborazione da parte di tutta la società. Non vorrei essere utopista, ma noi dobbiamo offrire delle méte non mediocri, né artificiali, ma le stesse méte di correzione di rotta di cui ha bisogno la cultura e la società. Sarebbe piuttosto impensabile, a mio avviso, ritenere che gli anziani possano esprimere questi valori e quei frutti propri della loro età, di cui sopra abbiamo parlato (la saggezza, l'ottimismo, la speranza, ecc.), se essi continuassero a vivere da "rassegnati" e da "sconfitti" nelle loro case e nei loro ospizi.
Di fronte a tante vite umane che la c. d. civiltà tecnologica estingue ogni giorno anche nel grembo della madre, di fronte ai progetti di morte inflitta, in modo più o meno dolcificato, il grido di amore per la vita e di speranza deve levarsi forte e corale. Si dovranno, allora, far carico anche gli anziani del fenomeno droga e della mancanza di unità della famiglia, della fame nel mondo e della devastazione dell'ambiente, dell'esigenza della pace e del disarmo, e non immiserire il dibattito su come passare il tempo in solitudine o investire il residuo della pensione come risparmio. La creazione di nuove possibilità per i giovani che attendono un lavoro o che tardano a formare una famiglia sono problemi su cui gli anziani possono portare un proprio messaggio ed un aiuto concreto.
"Numerose sono le forme attraverso cui gli anziani possono esprimersi e realizzarsi: continuando a partecipare alla vita di famiglia, praticando volontariato sociale, acquistando nuove conoscenze, seguendo corsi di insegnamento, esprimendosi in attività artistiche e artigianali, partecipando a organizzazioni comunitarie e associazioni di persone anziane o ad attività religiose, ricreative o turistiche, lavorando a tempo parziale o partecipando alla vita politica in quanto cittadini informati...".

2. Una seconda condizione per la promozione dell'anziano è la serenità del mondo degli affetti. Il problema della solitudine dell'anziano è essenzialmente una solitudine di carattere affettivo, è mancanza di affetti familiari: ciò non costituisce soltanto una sofferenza per l'anziano stesso, ma è un impoverimento per tutti, per i bambini e per gli altri componenti della generazione successiva; è, infine, una mortificazione delle possibilità creative del soggetto e perciò un depauperamento sociale.
Si sa che non è facile il rimedio, specialmente per i casi di anziani rimasti soli, vedovi o non sposati. Ma anche a questo proposito bisogna dire che la situazione non va data per scontata, limitandosi ad accusare la urbanizzazione, la famiglia nucleare, l'impegno lavorativo degli adulti. Ritengo che le problematiche dell'anziano non si potranno risolvere mai se la famiglia non riceve essa stessa una correzione di rotta.

Lo sviluppo disordinato della urbanizzazione, l'emigrazione interna ed esterna, la mancanza degli alloggi sono fattori gravemente condizionanti perché l'anziano rimanga inserito nella famiglia, venga a godere del clima affettivo della comunità domestica e svolga egli stesso un'opera necessaria di equilibrio, di armonia e di più facile e armonico trapasso della cultura fra le generazioni.
Rimangono oggi, pur sempre, dei casi in cui questa integrazione diventa difficile o addirittura impossibile. In questi casi estremi la comunità dovrà trovare, specialmente tra gli inabili, i non autosufficienti e i malati, delle forme di sostegno sussidiario. La comunità sarà stimolata ad esprimere, anche attraverso il volontariato, forme creative di aiuto e di sostegno umano.
"Tutti i membri della famiglia" scrive Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio - ognuno secondo il proprio dono, hanno la grazia e la responsabilità di costruire, giorno per giorno, la comunione delle persone, facendo della famiglia una scuola di umanità più completa e più ricca". Ed ancora: "Rimane certo che, restando fra i loro cari, le persone anziane possono beneficiare (le famiglie) con l'opportunità e la discrezione, sempre necessarie, dell'affetto e della saggezza, della comprensione e della saggezza, della comprensione e della indulgenza, dei consigli e del conforto, della fede e della preghiera, che sono, nella maggioranza dei casi, i carismi della sera della vita.

3. La terza condizione sta nel riconoscere che la comunità umana e civile, soprattutto la comunità cristiana, ha bisogno degli anziani, e che può esprimersi attraverso di loro e per loro, arricchendo la propria forza con una riserva di collaborazione che è di straordinario valore.

4. Dobbiamo, infine, preoccuparci anche degli anziani di domani e cioè dei giovani di oggi, perché si facciano sin da ora portatori dei valori che abbiamo cercato di evidenziare, proprio perché sono valori e stili di vita che non si improvvisano né si trasmettono automaticamente. Anche in relazione a questa dimensione diacronica emerge la necessità di una proposta globale che, pur facendo leva sugli anziani di oggi, guardi agli anziani di domani.

Considerazioni conclusive
Considerare gli anziani una ricchezza e l'anzianità la fase della vita in cui raggiungere la pienezza dell'essere: questo deve essere il punto di partenza e l'obiettivo di quanti - in ogni campo - lavorano per e con gli anziani.
"La grandezza di una civiltà - scrive Giovanni Paolo II - si misura dall'attenzione che essa porta a questi ideali ed a queste ricchezze e, per conseguenza, alle garanzie che sa offrire alle persone anziane di poter sempre incrementare il proprio inserimento anche operativo come membri di una comunità".
Queste linee di geragogia non sono soltanto astrazioni o auspici; si può constatare che vi sono dei risultati nella sensibilità e nella attitudine degli anziani.

Mons. Prof. Elio Sgreccia
Vice Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
Direttore dell'Istituto di Bioetica dell'Università Cattolica - Roma